
Pubblichiamo un intervento del professor Giuseppe Liotta, docente del Laboratorio di scrittura drammaturgica della Scuola di Teatro.
Alcune osservazioni prima di cominciare
Scrivere è superare se stessi. Scrivere un testo teatrale, o meglio, una composizione drammatica (per tutto quanto di affine essa ha con la partitura musicale), è prima d’ogni altra cosa un gesto creativo (fisico e mentale) che cancella, o sospende, per miliardi di attimi, le conoscenze fino a quel momento acquisite per cominciare a costruire, a inventare, una trama che prima non c’era ma che nel corso della scrittura si riprende quasi per intero ciò che gli è già appartenuto. Il problema con l’inizio della modernità, dal ‘500 ad oggi, almeno per il teatro, rimane sempre quello di dare nuove forme a vecchi contenuti: una continua lotta alle convenzioni (comprese quelle generate dalle “avanguardie”) per l’affermazione di altre modalità di rappresentazione e di spettacolo, per vivere, in diretta, la propria contemporaneità. E’ un ritorno delle origini, delle emozioni primordiali che ci hanno portato ad un hic et nunc individuale, speciale, destinato a trovare nutrimento nel passato e nello stesso tempo pronto ad anticipare il futuro. Un recupero vorticoso di affettività nascoste, dimenticate, di conoscenze (persone e cose) che affiorano prepotenti in maniera involontaria da una memoria imperfetta, riverente, oscena pronte a generare inedite e sorprendenti realtà sceniche, linguistiche e performative, di particolare energia e dense di innovazioni tematiche e tecniche.
La memoria
Senza un richiamo al passato, divenuto memoria individuale e collettiva, il teatro probabilmente non sarebbe mai nato. Lo sapevano bene i tragici greci che attingevano a storie lontane, a personaggi reali e immaginari per scrivere le loro opere, ridare corpo e voce, intelletto ed anima a fatti e situazioni perduti nel tempo. A loro volta, anche i personaggi partecipavano a questo itinerario a ritroso per interrogarsi, attraverso le parole del poeta, sulle proprie azioni, le pulsioni intime, inviolate, che li avevano inchiodati nella condizione di miti inamovibili, senza possibilità di riscatto, per scoprirsi invece mutevoli, umani, devastati dal loro passato ma restituiti indenni ad un inesplorato futuro. Senza questa complicità fra autori e personaggi a ricostruire un nuovo intreccio, e una più diversa trama dei fili della memoria, il teatro perderebbe la sua essenza primaria che è quella di rendere vere e credibili vicende finte, irreali.
Nel teatro ogni cosa nasce per il “presente” specifico ed esclusivo della scena e va a determinare il tempo del dramma unito a quello dell’azione: un presente in continuo divenire che appare e sparisce nel momento del suo stesso accadere e che della storia originaria ne propone soltanto una ipotesi, una frantumazione o un incompleto riflesso.
Spazio e tempo
Sono due nozioni teatrali che, dal punto di vista teorico, non riguardano né la “misura” né la “durata” della rappresentazione ma il suo versante espressivo; nello stesso spazio (che muta rispetto al punto di vista dello spettatore) convivono due tempi: il tempo dentro la rappresentazione e il tempo della rappresentazione; uno interno, l’altro esterno. Quando questi due atti temporali coincidono abbiamo, a mio avviso, lo spettacolo perfetto.
Persona vs Personaggio
Lo statuto dei personaggi teatrali è per sua natura malfermo, incerto, evanescente; le parole che essi pronunciano, le opinioni che esprimono, perfino alcune stesse frasi (“qui si soffoca”) le ritroviamo spesso ripetute in altre epoche, in altri luoghi come se, paradossalmente, appartenessero ad un unico serbatoio linguistico a cui potere attingere, e di conseguenza i “personaggi” potessero essere tutti uguali, seppure appartenenti a diverse “tipologie drammatiche”. La differenza viene data principalmente dal “contesto” in cui gli eventi avvengono. In realtà è proprio questa “ripetizione”, questa permanenza del lessico a dare alla “forma drammatica” il suo riconoscimento, la proprietà di testo infinito. Ma non c’è teatro senza teatralità. Che cosa è la teatralità? si interroga R. Barthes: “…è il teatro meno il testo, è uno spessore disegni e di sensazioni che prende corpo sulla scena a partire dall’argomento scritto, è quella specie di percezione ecumenica degli artifici sensuali, gesti, toni, distanze, sostanze, luci che sommerge il testo con la pienezza del suo linguaggio esteriore. Naturalmente la teatralità deve essere presente sin dal primo germe scritto di un’opera; è un fatto di creazione, non di realizzazione”. (R. Barthes, Saggi critici, Einaudi, Torino, 2002, pag.5).
A questo punto il Personaggio cede il posto alla Persona, cioè all’Attore, che partendo da se stesso trova le vie per farlo rinascere ancora un’altra volta e restituircelo più umano dell’umano, più vero del vero, con i tratti di un carattere che all’inizio era soltanto suo mentre adesso è iscritto in entrambi, ma appartiene all’attore che lo agisce in scena come deve (partendo dalle indicazioni del Regista), come può a seconda del suo stile, della sua bravura di comédien. Possedere un personaggio vuole dire esserne posseduti. Nel lavoro dell’attore il momento creativo e quello esecutivo sono intimamente uniti: si tratta di un processo vivo, fatto di etica e di sensibilità, dove l’attore crea anche senza stare in scena.
L’Attore nomina il Personaggio, il Personaggio invoca l’Attore: la recita è dunque l’incontro sempre possibile fra due entità che si riconoscono nello spazio astratto della Scena per diventare realtà fittizie, di breve durata, ma limpide, luminose, concrete, in un luogo fisico, tangibile, fortemente esplicito. Un poco che evoca un tutto, attraverso un’azione che consiste nell’intervallo di movimento che passa per raggiungere un punto dello spazio scenico. Niente è neutro, distante, oggettivo; tutto è individuale, accade dentro di noi: i fatti sono il riflesso materiale delle nostre pulsioni, le situazioni (la maniera in cui gli episodi vengono ricomposti) diventano le immagini proiettate del nostro desiderio: una istanza nello stesso tempo di vita e di morte. Nessun contenuto primario. L’opera teatrale, come l’arte visiva, è fatalmente il risultato di un manque, di una amputazione, di una sofferenza irredimibile.
Nessuna forma drammaturgica è per sempre: ogni rappresentazione rinvia all’anomia di un testo e non lo completa mai. La voce e l’immagine sono le uniche cose certe dell’espressione scenica, la visione e l’ascolto che si manifestano nel loro divenire.
La parola-fase
Il teatro è paradossalmente il luogo della comunicazione interdetta: le parole che si dicono, i gesti che si compiono nella realtà scenica vanno proprio nella direzione opposta all’interlocuzione diretta, alla riflessione trasmissibile, rimbalzano su chi le pronuncia, anche nel caso del “monologo interiore”, o del “flusso di coscienza”, non esiste un destinatario privilegiato. Nel teatro agisce una “seconda lingua” che non è mai quella del linguaggio parlato, in scena non si parla come nella vita, le parole non stanno ad indicare “le cose”, non veicolano significati, sono soprattutto “segni”, fonemi, lemmi che nel nuovo sistema linguistico producono continue variazioni di senso, perfino di contenuto, fino a testimoniare, esse stesse, della loro inaffidabilità logica,teoretica e concettuale, tesi invece come sono all’acquisizione, di valori espressivi musicali (l’orecchio teatrale) e prossemica, , e di una tecnica di arresto che non appartiene più al sistema della prosa, ma alla forma della poesia. E’ l’affermazione della parola-fase, osmotica, onomatopeica, tracimante, trascinante che è data dall’intervallo di tempo che passa da un sintagma (insiemi di parole) all’altro, scandito da un ritmo narrativo (la sequenza delle varie battute) fatto di cesure, interpunzioni, incisi, epifanie improvvise nella composizione dei dialoghi e dei monologhi, sottrazioni e aggiunte di sensazioni, emozioni, nuovi sentimenti determinati dall’atto materiale di una scrittura drammaturgica che si proietta sulla scena. Sillaba che genera parola, frase, periodo, discorso…
(tratto da "Le parole per non dire")