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Biri canta Pecos Bill

di Jimmy Villotti
Teatro del Navile Scuola di Teatro Bologna

Il Teatro del Navile è un caratteristico caveau di stile parigino nel cuore di Bologna, in via D'Azeglio, a fianco dell'Hotel Roma. Dagli anni '50 agli anni '70 fu sede di una famosa trattoria delle notti bolognesi, la "Buca Genasi," cenacolo artistico frequentato dagli artisti che alloggiavano all'Hotel Roma  (tra cui Mario Del Monaco, Hengel Gualdi, Gino Latilla, Nilla Pizza, Carla Boni, Tito Schipa, Beniamino Gigli, Achille Togliani, Nicola Arigliano). Tra i frequentatori dell'epoca c'era il giovane Jimmy Villotti che così ricorda la Buca Genasi nel suo libro "Orìnghen":

 

Biri canta Pecos Bill

 

"Passai l’hotel Roma e, quasi venisse dall’oltre tomba , mi arrivò all’orecchio un canto leggero, decisamente sgraziato, su cui, a intervalli più o meno regolari, si sovrapponevano risa di stampo asinino che nulla avevano di umano.

 

Seguii l’onda sonora a naso, come si segue una scia resinosa, e mi trovai di fronte ad una porta che conduceva dabbasso. Alcune scale umide ed ecco la ragione di quelle risa, di quella musica, di quell’odore. Una lunga scala, praticamente uno stanzone, gremita di gente che beveva, cantava e rideva stando seduta su delle panche di legno e appoggiata a dei tavolacci da osteria.

 

In fondo, lo notai subito, v’era la ragione delle risa. In fondo vi era il “cafè-chantant” e la sala era,lo seppi quella sera stessa, la “Buca Genasi”.

 

I pensieri che affollavano la mia mente si dissolsero come per incanto, lì c’erano i motivi d’interesse ben maggiore. Al microfono vi era la Mafalda che, coadiuvata dal maestro Lodi in pantofole di panno scozzese, cercava di dare senso ritmico-melodico alla canzone di successo “La Bambola”.

 

Mi sedetti in una panca lì,a caso, e ordinai vino ad un oste che ostentava avambracci grossi , molto grossi, e baffi. Mafalda aveva un vestitino a fiori che le arrivava al ginocchio e gli occhiali con lenti spesse, e si sforzava nel cantare dando botte sul coperchio del pianoforte,dove il maestro Lodi arabescava i suoi interventi di controcanto.

 

Le prime file davanti a lei le ridevano cretinamente senza ritegno. “Dai Mafalda! Canta!” gridò uno, e lei: “ As po’ mègga cantèr con stì imbezel què davanti!” (Non si può mica cantare con questi cretini qui ....) “Dai Mafalda, cantaci Lo Straniero!” . “Tò surela! (tua sorella) mè à cant piò! (io non canto più) e se ne andò via impettita. Si fece avanti Camuso e parodiò “Come pioveva”.

 

Poi fu la volta di Gastone che propose “Ti darò quel fior” del maestro Mascherone e furono applausi. Infine prese possesso del palchetto un certo Biri che cantò “Pecos Bill” . Questo tipo dalla faccia rossa e dal maglione grigio cantava di “sghimbescio”, e la sua voce era un misto di approccio baritonale con il tipico canticchiare da bambino.

 

Pressato dalla posizione anomale del torace su cui il meto si appiattiva , Biri non dava segni di cedimento e continuava nel suo repertorio di canzoni in perfetto stile Walt Disney.

 

Dal fondo della sala qualcuno, di tanto in tanto, lanciava un urlo rantolante ma potente: Biriiii!!!! Insomma mi sentivo nel bel mezzo di una bolgia, ma mi sentivo bene. Il vino dava il suo apporto nel senso corroborante della messinscena, i contorni delle cose, già precari per il fumo e l’illuminazione da cantina , si stemperavano a contatto con l’aria umida. Così che ridevo.

 

Ridevo esageratamente e a bocca aperta, come fa un somaro quando annusa una merda, arrivando pure a lacrimare ma... si sa che sono reazioni dettate dalla tensione e, comunque, stavo bene. In questa situazione mi venne da girare il capo verso l’entrata del salone, là dove c’erano le scale di pietra dura.

 

Vidi, mi parve di vedere, un uomo dall’aspetto pietoso, con il volto sporco e imbrattato di sangue, fermarsi al primo scalino mentre un alone circolare di colore giallo paglierino lo avvolgeva. Portava sulle spalle una trave pesante che lo faceva vacillare sotto il suo peso, e un manipolo di soldati apparve d’incanto attorno all’uomo facendogli da scorta. Alcune donne, a lato, stendevano le braccia in segno di supplica...un canto di rara dolcezza s’incuneò tra le risa, gli sberleffi e le offese. Tutto tendeva a sovrapporsi fino a confondersi in uno strano senso di beatitudine.

 

L’ultima cosa di cui ebbi ragione, o forse non ebbi neanche ragione di questa, fu che mi addormentai pesantemente dopo aver appoggiato delicatamente la testa sul tavolaccio da osteria della Buca Genasi. Bueno.

 

Orìnghen!

 

Jimmy Villotti

Da ORINGHEN

(frammenti di notti bolognesi) di Jimmy Villotti, Editrice Nettuno – Bologna, 2001

2010 - present

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